DIPENDENZA AFFETTIVA E ABBANDONO





"Gravi e lunghe separazioni affettive subite nell’infanzia lasciano grosse cicatrici nell’anima.
Lo studioso che, maggiormente, ha sostenuto questa teoria è John Bowlby. Secondo Bowlby il neonato sviluppa, nei confronti della madre un attaccamento che ha la stessa funzione biologica dell’autoconservazione. E’ un comportamento necessario alla sopravvivenza. Lo stesso comportamento si manifesta nei cuccioli che si comportano in modo tale da stare vicino alla madre. Attaccarsi ed affidarsi è un modo per sfuggire al pericolo. Qualsiasi esso sia. E’ una strategia per esorcizzare la paura. Qualsiasi paura. 

Accompagnarci a qualcuno è un meccanismo che mettiamo in atto anche da adulti per affrontare, protetti, tutte le situazioni che temiamo. Chi da bambino ha vissuto bene e pienamente il periodo di attaccamento, è da adulto maggiormente in grado di affrontare la separazione. Tutte le separazioni. Il passaggio dall’attaccamento alla separazione avviene, gradualmente, attraverso la soddisfazione di un altro bisogno: quello di avere una base sicura. Il bambino comincia ad allontanarsi pian piano da sua madre per esplorare, conoscere, sperimentare. Per farlo in maniera sana ha bisogno comunque, di saper che lei è lì. Che lo osserva a distanza, ma lo osserva. Che lo protegge. Si allontana, sapendo che sua madre è dietro le sue spalle e, in qualsiasi momento lui si volti, lei c’è. Questo gli da forza. La forza di allontanarsi sempre di più e più a lungo. Il pensiero che ci sia qualcuno a “coprirci le spalle “, quando ci allontaniamo, viene col tempo introiettato. Lo portiamo cioè dentro di noi, arrivando a non aver più bisogno della presenza fisica, ma del pensiero, dei pensieri, di quella persona. Nostra madre c’è. Anche se non è presente.
La maggior parte di noi morirebbe se sapesse di non essere pensato, da nessuno. Proprio quando pensiamo o temiamo di non essere pensati stabiliamo quelli che Bowlby definisce attaccamento. Temendo di non essere accettati, facciamo di tutto per far apprezzare la nostra presenza. Temendo di essere allontanati imponiamo noi stessi. Temendo di essere dimenticati facciamo in modo che sia, anche se in negativo, indelebile il ricordo di noi. 
Allontaniamo quelli che amiamo perché è troppo quello che chiediamo. Li allontaniamo perché abbiamo paura di perderli. 

E così succede. Li allontaniamo con la nostra dipendenza.

La dipendenza affettiva è la più alta espressione dell’attaccamento ansioso. Può essere una caratteristica, un modo di porsi o una vera e propria malattia. Il naturale decorso di quell’antica ferita che stenta a rimarginarsi. Molti si chiedono come sia possibile che portatrici di questa ferita siano le donne più che gli uomini. Il discorso può essere semplicissimo e complicato, al tempo stesso. 

I maschi, poverini, vengono, in fretta abituati all’indipendenza. 
A loro si insegna che la forza è libertà. Esattamente come le femmine, patiscono, nell’infanzia, la separazione e l’abbandono. Ma a loro, pur se con l’inganno, di quell’abbandono, viene spiegato il motivo. Viene dato un movente.
“Gli uomini sono più forti, non devono piangere, gli uomini non hanno bisogno di nessuno.” Molti crescono con la rabbia di non aver potuto esprimere la propria rabbia, magari piangendo. 
Ma con la certezza, per questo, di essere più forti. 

Alle donne, questo non succede. I bambini giocano con i trenini e con le macchinine, le bambine con le bambole o con i pupazzi. I bambini imparano cioè a rapportarsi, ad affezionarsi, a legarsi alle cose, le bambine alle persone.
Alle donne s’insegna la dipendenza. Crescono nella dipendenza. Misura del loro valore di donne è la capacità di essere dedite a qualcuno, accondiscendenti, succubi, vittime. 
“Una brava donna” è colei che non chiede, non si espone, non pretende. “Una brava ragazza” è quella che rinnega la sua libertà, i suoi spazi. Quella che sta a casa, che non tradisce, che non ha “grilli per la testa”. Una brava ragazza è dipendente. Bisognerebbe essere dipendenti, per essere scelte, accettate ed apprezzate. Non esserlo, quando per gli altri, diventiamo un peso.

La dipendenza psicologica consiste essenzialmente nell’affidare a qualcuno o a qualcosa, (ad esempio ad una sostanza) il compito di risolvere i nostri problemi di tristezza, senso di inadeguatezza e sfiducia in noi stessi.
Il termine dipendenza, dal latino dipendere significa “pendere da”. Il Dizionario Enciclopedico di Scienze Mediche Taber da a questo termine più di un significato:

1) Essere coinvolto, per una varietà di ragioni, in una delle diverse forme di comportamento ripetitivo, come giocare d’azzardo, mangiare disordinatamente, guidare spericolatamente, che possono riferirsi vagamente alla dipendenza, ma il termine è riservato più correttamente ad indicare la dipendenza da stupefacenti, alcol e tabacco.
2) Stato di soggezione verso un altro o forma di comportamento che denota incapacità di prendere decisioni.
3) Dipendenza fisiologica che può o non accompagnare un forte desiderio per una droga.
Come si può dedurre una dipendenza è innanzi tutto un comportamento ripetitivo, un comportamento spesso incontrollabile, un’ossessione. Incapace di controllare il proprio istinto è il giocatore d’azzardo, il bulimico, l’alcolista, il tossicomane, l’innamorato- dipendente.Non è un caso se parliamo di istinto.

Una dipendenza è come una fame improvvisa che chiede di essere tempestivamente saziata ma che non sempre porta a sazietà. Spesso si avverte un senso di vuoto maggiore legato ad una specie di nausea, un vomito.

Molti sono gli Autori che negli anni hanno scritto di dipendenza: medici, psicologi, psicoterapeuti, sociologi, antropologi. Ciascuno dal proprio punto di vista e con i propri strumenti ha cercato di rispondere a tutti gli interrogativi legati a questo tipo di disagio.
Difficile, è risultato, unificare le diverse forme di dipendenza, riportarle ad un comune denominatore, riabilitarle attraverso un unico intervento terapeutico.
Le dipendenze non sono tutte uguali, i dipendenti sì.

Una persona dipendente cerca il senso del proprio valore nella approvazione degli altri. Alla base della dipendenza c’è sicuramente un problema di autostima: la dipendenza nasce, come abbiamo visto, da un cattivo rapporto con le figure di riferimento. Con le figure d’appoggio. Ciò porta ad un cattivo rapporto con se stessi, ad uno scarso amore per sé, al bisogno costante di appoggiarsi o di farsi sostenere da qualcosa o da qualcuno. La convinzione è che non siamo capaci dire nulla, neanche di farci amare. Se nostra madre non ci ha amato, allora proprio non lo meritiamo. Da soli non ci si sente in grado di camminare, di fare, di sperimentare, di agire, neppure di esprimere un’opinione.

Una persona sana si rifiuta di farsi maltrattare da qualcosa o da qualcuno; la dipendenza ci rende vittime di una situazione in cui l’altro, sia esso uno sostanza o una persona, è comunque il più forte. La dipendenza è una debolezza. Ecco perché i maschi non la manifestano chiaramente come le donne. I maschi, continuano anche da adulti, ad interagire con le cose, non con le persone. Quando non sono stati amati abbastanza, quando sono stati allontanati o abbandonati, sviluppano una serie di dipendenze rivolte più alle cose che alle persone. Loro, i maschi, sono, più delle donne, alcolisti o tossicodipendenti.
L’alcool, o la droga, diverrebbero una sorta di coperta di Linus ossia una oggetto transazionale che facilita il distacco dalle figure genitoriali e quindi la crescita.
La dipendenza, in questo modo, diviene per loro quasi una forza.

Ed è con la forza che, gli uomini, reagiscono alle loro dipendenze affettive. 
Molti diventano violenti, maneschi. Ricatteranno e mortificheranno la persona che temono li abbandoni. Ma lo faranno mostrandosi forti e facendo sentire l’altro sempre più debole ed inadeguato. La dipendenza affettiva maschile diviene legittimata e “mascherata” da altri fattori: la gelosia, la rabbia, l’onore, la reputazione. Situazioni ancora, purtroppo, socialmente riconosciute, e quindi approvate e compatite".


Tratto da Marinella Cozzolino “Il peggior nemico. Storie di amori difficili” Armando Editore 2001

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