SI PUO'AMARE DA MORIRE, MA MORIRE D'AMORE NO!

 

Cosa significa essere innamorati nella società contemporanea? Quando l’amore ci esalta e ci arricchisce, e quando invece ci depriva e ci avvilisce?


Secondo Giddens “L’amore cresce soltanto nella misura in cui aumenta il grado di intimità e ciascuno dei partner appare disponibile, non solo a rivelare all’altro le proprie preoccupazioni ed i propri bisogni, ma anche ad essere vulnerabile nei suoi confronti” (Giddens,1995, p.72).

Sternberg aggiunge all’intimità, altre due componenti, per la costruzione di quello che chiama “l’amore perfetto”. Si tratta della passione, ovvero l’intenso desiderio di unirsi all’altra persona, e dell’impegno, ossia la scelta e la volontà di far durare una relazione attraverso una decisione presa congiuntamente (Giusti, Bianchi, 2012).

Tutto questo, ovviamente, è possibile in un rapporto caratterizzato dalla reciprocità, da un sostanziale equilibrio di poteri, in cui il bilancio dare/avere è pressoché paritario.

Questo scambio equilibrato non sussiste purtroppo all’interno delle relazioni dipendenti: secondo Giusti e Pitrone, in questo contesto, “i partner sono legati da un contratto inconsapevole in base al quale l’uno deve prodigarsi in cure e aiuti inesauribili, senza pretendere nulla in cambio, mentre l’altro deve solo godere delle cure e non far ricorso alle proprie forze” (Giusti, Pitrone, 2004, p.47).

Una profonda mancanza di autostima condanna infatti i dipendenti affettivi a cercare sempre di compiacere l’altro, fino ad arrivare ad un vero e proprio annullamento di sé, ad una “morte della propria individualità”.

Il desiderio spasmodico di dimostrare di essere abbastanza coincide in realtà con un tentativo inconscio di manipolare il partner, di diventare insostituibile per lui/lei; l’intento è quello di tenerlo/a legato/a in modo indissolubile, attraverso attenzioni, abnegazione e sacrifici che nascondono in realtà intenzioni ben poco altruistiche.

Da dove origina questo esasperato timore della perdita?

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